Firme Elettorali – Intervista a Gabriele Maestri – Parte 2

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Proseguiamo la Nostra … “campagna” per la revisione e l’adeguamento dell’istituto della raccolta delle firme elettorali, pubblicando la seconda parte dell’intervista che, gentilmente, ci aveva concesso Gabriele Maestri, giornalista pubblicista, dottore di ricerca in Teoria dello Stato, noto per il suo impegno divulgativo e accademico in materia di diritto dei partititi e dei loro simboli, impegnato da tempo nello studio delle forme politiche del nostro paese e delle loro revisioni.9
Maestri, quando parlava del senso che ancora conserva, nonostante tutto, la raccolta delle #firme, accennava a un problema legato alla scheda elettorale: a cosa sta pensando?

Parlare di offerta elettorale significa, in Italia, parlare di simboli che finiscono sulla scheda. Senza firme da raccogliere, il numero degli emblemi in gioco potrebbe aumentare di molto; tra quelli potrebbero spuntare facilmente simboli sconosciuti e difficili da riconoscere, ma pure loghi strani o creati apposta per somigliare a quelli di partiti più noti. E’ vero, alcune regole già vietano di presentare simboli uguali o confondibili con quelli già famosi perché presenti in Parlamento o usati tradizionalmente da un partito (e, se si somigliano due emblemi nuovi, ha la precedenza chi si è messo in fila per primo); non scongiurano però ogni rischio. Per esempio, giudici e uffici elettorali hanno stabilito che tutti i partiti che si rifanno alla stessa tradizione politica hanno il diritto di usare il segno che la caratterizza, purché differenzino a dovere il resto del contrassegno: ciò significa che, senza obbligo di raccogliere firme, potrebbero presentarsi anche dieci, venti liste di partiti o movimenti comunisti, ciascuna col diritto di utilizzare falce e martello, magari sbizzarrendosi sui colori degli arnesi e dei rispettivi sfondi, o sulle scritte da inserire. Un groviglio insostenibile, ma la fantasia di certi personaggi, presentatori seriali di simboli e liste, ne inventerebbe certo altri…

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Parafrasando Deirdre McCloskey, la buona “politica” funziona come un buon mercato: non in modo anonimo e meccanico, ma attraverso la fiducia, il dialogo e la persuasione. Oggi il vero rischio per la #rappresentanza è vedere seriamente condizionata l’offerta politica da un adempimento che fiducia, dialogo e persuasione, più che sintetizzarli, li liofilizza? Con quale utilità poi? Evitare una frammentazione che invece legge elettorale e regolamenti parlamentari hanno finito per incentivare, sacrificandola sull’altare di scelte influenzate da ben altri fattori?

Un problema di rappresentanza c’è, ma va individuato bene. Dicevo che la raccolta delle sottoscrizioni non è stata introdotta per mettere i bastoni tra le ruote, ma per evitare che si presentino agli elettori personaggi senza credibilità o la cui proposta è così improbabile da non riuscire a convincere i cittadini non a votarli, ma a dar loro la possibilità di concorrere. Questo non è sbagliato; i guai però arrivano con l’introduzione delle esenzioni ed esplodono con il loro allargamento. Il problema allora non è (più) la raccolta firme in sé, ma l’irragionevole discriminazione tra i fortunati entrati in Parlamento e tutti gli altri: una platea non piccola, grazie alle soglie di sbarramento (nel 2008 quasi il 10% dei voti espressi per la Camera non si tradusse in seggi; nel 2013 la quota degli esclusi fu poco più del 7%). Di certo questi gruppi faranno più fatica anche solo a finire sulla scheda.
Le leggi elettorali non hanno aiutato, o almeno non sempre: ammetto che, quando si è votato con il Mattarellum (1994, 1996, 2001) non erano previste deroghe e tutti dovevano raccogliere lo stesso numero di firme. Nel 2006, in compenso, furono esentate, oltre ai partiti costituiti in gruppi parlamentari (in entrambe le Camere e dall’inizio della legislatura) e alle minoranze linguistiche con almeno un parlamentare eletto, anche le liste coalizzate con almeno due formazioni esenti (per i loro gruppi parlamentari), purché avessero eletto almeno un eurodeputato e avessero usato lo stesso emblema presente a Strasburgo. L’unica lista di peso che dovette raccogliere le firme, con le proteste di Marco Pannella, fu la Rosa nel Pugno, perché la lista comune tra radicali (due eletti a Strasburgo) e socialisti non permetteva di usare il simbolo delle europee di due anni prima.

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“Prima di tutto spetta ai cittadini-elettori scegliere i parlamentari perché solo cisì torneranno a sentirsi davvero rappresentati, tutto il resto segue. Nel momento in cui, in #Parlamento, ci si sta rimettendo al lavoro sulla legge elettorale, credo che sia un promemoria necessario e prezioso”. Sono parole pacate ed equilibrate del direttore del quotidiano Avvenire, dott. Marco Tarquinio. Noi dovremmo aggiungere … purché abbiano raccolto le firme! Perché altrimenti per il #cittadino – #elettore non se ne fa nulla.

Ha ragione Tarquinio e anche la riflessione che segue è giusta. Si può dire che l’istituto della raccolta firme, per com’è congegnato, rischia di non consentire una scelta piena ai cittadini, che potrebbero non “sentirsi davvero rappresentati”: è chiaro che chi non riesce a raccogliere le firme non può né partecipare alle elezioni né, men che meno, essere eletto.
Questo vale per le elezioni di portata nazionale, ma anche per le regionali, con in più l’aggravante creata dall’autonomia che la Costituzione lascia a ogni singola Regione in materia di elezione dei propri organi. Il risultato è che attualmente solo sei Regioni non prevedono alcuna deroga per le liste in tema di deposito di sottoscrizioni; le altre esentano dall’adempimento i gruppi consiliari, a volte si accontentano dell’elezione (o dell’adesione) di una sola persona in consiglio o di una dichiarazione di collegamento con un gruppo (anche con nome diverso), magari estendendo l’esenzione ai partiti con eletti al Parlamento (italiano o europeo). La vetta si tocca in Piemonte e Liguria, che sono intervenute in materia elettorale regionale solo per introdurre l’esenzione alla raccolta firme (in Liguria lo si è fatto addirittura con un collegato alla finanziaria 2015), e nelle regioni – Veneto e di nuovo Piemonte – in cui un gruppo consiliare, oltre alla sua lista, può esentarne anche un’altra con una dichiarazione di collegamento, anche se è di nuova creazione. Stare in una Regione o in un’altra, a quanto pare, può fare la differenza sull’essere o meno rappresentati…

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In un post del #Senatore Pietro Ichino si legge: “I soli oneri previsti dall’ #Italicum è che essi costituiscano una associazione dotata di uno statuto democratico, e riescano a raccogliere il numero di firme necessario per la presentazione della lista: requisito indispensabile per evitare una proliferazione eccessiva di liste che non gioverebbe alla chiarezza della competizione elettorale”. E’ davvero solo questo lo scopo della raccolta delle firme? E una prospettiva comparativa con le soluzioni adottate negli altri paesi dell’Unione Europea cosa suggerisce?

Nelle risposte precedenti ho già cercato di spiegare lo scopo della raccolta firme. Ora posso dire che l’alternativa – di stampo decisamente anglosassone – è costituita essenzialmente dal deposito di una somma di denaro a titolo di cauzione: è previsto che la somma sia restituita in caso di superamento di una determinata soglia di voti, non troppo alta (ad esempio, del 5%), diversamente viene trattenuta, così i candidati pagheranno “l’azzardo” di una candidatura da ritenere poco seria. Si parla spesso di questa possibilità come alternativa alla raccolta firme; ammetto però che non guardo con entusiasmo a questa soluzione, visto che i candidati più ricchi non avrebbero certo problemi a lasciare in deposito denaro di cui non hanno bisogno; si rischierebbe invece di mettere un tappo alle candidature dei partiti nati da poco e senza notevoli disponibilità economiche.

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Si può riuscire ancora a “spiegare” la ratio della previsione di un numero minimo di sottoscrittori per presentare una lista allo scopo di evitare una proliferazione di liste che non gioverebbe alla chiarezza della competizione elettorale “poiché non verrebbe assicurata la loro credibilità e affidabilità”? Perché una “delega in bianco” ad una coalizione di persone / partiti e simboli che si riunisce soltanto ed esclusivamente in vista della competizione elettorale quale chiarezza dovrebbe … suggerire?
Alla prima domanda credo di avere già risposto prima, la seconda merita qualche riga a parte. Il problema di fondo è che le forme sono rimaste le stesse, ma la sostanza è cambiata. Nel senso che la raccolta delle sottoscrizioni è stata pensata in un sistema di partiti, organizzati, stabili e capillarmente diffusi (anche quelli di pochi punti percentuali erano certamente “esistenti” sul piano concreto, il tesseramento non rappresentava l’unico momento di contatto con l’organizzazione del partito). Oggi, e ormai da qualche tempo, non è più così: l’organizzazione in gran parte è evaporata, anche perché le casse si sono ampiamente svuotate, la leadership dei singoli è molto più forte rispetto al passato e per una lunga fase si sono moltiplicati i partiti personali, per cui davvero siamo sempre più di fronte a macchine elettorali che, nel tempo restante, al di là del tesseramento si limitano a rilasciare dichiarazioni e a organizzare qualche evento. In questo senso il rischio di “delega in bianco” c’è, ed è tanto più grave nel momento in cui il sistema elettorale in vigore è d’impronta maggioritaria e, magari, non consente all’elettore di esprimere alcuna preferenza, com’è accaduto negli anni di vigenza del Porcellum con le liste bloccate.

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Alcune proposte di legge degli ultimi anni affrontano il problema della “raccolta #firme” cercando di ampliare l’orizzonte di coloro che possono “autenticare” le firme (la “variegata messe di soggetti autenticatori” di cui parla un disegno di legge depositato in Senato). Perché nessuno invece affronta il problema della “raccolta firme” nella sua ragion d’essere, occupandosi dei problemi che tale formula, accolta dal legislatore dopo la guerra, ha indotto?

Il riferimento agli autenticatori è importante, perché mette il dito su un altro punto critico. Nel 1990 la platea dei soggetti che potevano autenticare le sottoscrizioni (dei candidati e dei presentatori di lista) era limitata a notai, pretori, giudici conciliatori, cancellieri, segretari comunali, sindaci, assessori, presidenti dei consigli circoscrizionali e funzionari comunali incaricati; via via il novero è stato allargato e dal 1999 hanno quella facoltà anche “i consiglieri provinciali e i consiglieri comunali che comunichino la propria disponibilità, rispettivamente, al presidente della provincia e al sindaco”. Si voleva rendere più facile la presentazione delle liste; in realtà questo ha drammaticamente facilitato il compito a chi è già all’interno delle istituzioni, perché dispone direttamente di “propri” autenticatori. Chi non ha eletti all’interno delle istituzioni, o ne ha pochi e poco diffusi, deve quasi sempre ricorrere a figure professionali per l’autenticazione, che hanno un costo; chi invece si allea in coalizione con le forze maggiori, può sperare in un trattamento “di favore” se quei partiti mettono a disposizione i loro autenticatori (ma non sono tenuti a farlo, quindi possono crearsi anche così “figli e figliastri”). Avere aumentato a dismisura il numero degli autenticatori, tra l’altro, ha moltiplicato le occasioni per falsificare le firme (a volte, persino quelle degli stessi autenticatori) e drogare così la competizione elettorale; da ultimo, è cosa nota che quasi mai i fogli per la raccolta delle sottoscrizioni, all’atto della firma, sono completi di tutti i nomi per le candidature, perché per certi partiti e liste è prassi comune chiudere i nomi all’ultimo minuto: questo è contro la legge ed è un’altra stortura del sistema.
Disegni di legge come quello citato, a prima firma di Enrico Buemi, affrontano solo in parte il problema, proponendo l’autocertificazione solo per le firme “singole” (le accettazioni di candidatura) e non per quelle collettive di presentazione delle liste. Si dovrebbe pensare a un sistema di autenticazione con i propri codici personali (il codice fiscale? lo SPID? altri ancora?), che magari consenta direttamente dal proprio terminale di scegliere se autenticare una lista e, nel caso quale: esiste una proposta a prima firma della deputata Mara Mucci, per esempio, che mira a consentire pure la raccolta delle sottoscrizioni in modalità digitale; probabilmente, però, tutti dovrebbero dotarsi di un kit di firma digitale o della carta d’identità elettronica, magari con l’impronta digitale memorizzata all’interno. Volendo mantenere e correggere il sistema attuale, sarebbe già molto riuscire a cancellare ogni deroga alla raccolta firme: con la gente che oggi firma assai malvolentieri e i partiti che non sanno più organizzarsi sul territorio, se difficoltà dev’essere, che lo sia per tutti. Si potrebbe anche pensare di tagliare drasticamente (sempre per tutti) il numero di firme necessarie per le candidature, a patto di ridurre di molto il numero dei soggetti abilitati ad autenticare e di perseguire con durezza i falsi: a quel punto, infatti, l’obiettivo sarebbe alla portata di molti, senza scandalo.

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