Non chiamatemi liberale

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Tre lustri dopo la fine del millennio delle ideologie, sembra che ancora troppi siano legati a sistemi obsoleti per affrontare e decodificare la realtà.

Se possiamo dare come fortunatamente e definitivamente archiviate le dottrine più pericolose, come il nazismo, il fascismo e il comunismo, nonostante alcuni rigurgiti che pur mantenendo caratteristiche di pericolosità sociale non hanno una reale prospettiva storica, rimane e persiste un’unica ideologia di quell’epoca infelice, ed è il liberismo.

Ammantata via via da miti più o meno reali e con riferimenti che risalgono ormai a periodi che non hanno più nulla a che fare con la realtà odierna, il liberismo, soprattutto nella sua accezione economica è un termine vantato ed utilizzato da troppe persone troppo diverse tra loro per poter essere considerato univoco nel significato.

Solo per ricordare gli ultimi nomi italiani che di tale termine si sono fregiati: Renzi, Alfano, Fini, Monti, Berlusconi, persino Bertinotti in alcune delle sue ultime affermazioni.

E’ chiaro che deve esserci qualcosa di profondamente errato se tutti questi personaggi, le cui azioni politiche reali sono risultate tutte rivolte allo statalismo più sfrontato, hanno potuto utilizzare il termine senza essere derisi e anzi ricevendo consensi popolari di buon livello.

Non è mia intenzione soffermarmi sulle considerazioni teoriche del liberismo, ma solamente provare a capire com’è possibile che una teoria costantemente richiamata dagli uomini al governo non sia mai riuscita ad imporre un movimento autonomo, in grado di proporre non solo uomini, ma anche idee, politiche e proposte indipendenti.

Io credo che la prima considerazione da fare sia nelle due anime contrapposte che animano i movimenti liberali. Il liberale, per riassumere, dovrebbe riconoscersi nella ricerca costante della responsabilizzazione della libera iniziativa e del libero pensiero, in tutte le espressioni della vita e della comunità umana.

E invece no. L’ideologia liberale è riuscita a muoversi su due piani completamente divisi e spesso contrapposti: quello economico e quello dei diritti individuali.

Sul piano economico, il liberismo viene ben compreso da tutti coloro che hanno spirito di iniziativa, siano essi grandi o piccoli imprenditori o dipendenti e consulenti con spirito di intraprendenza. Si scontra naturalmente con tutti coloro, delle stesse categorie di cui sopra, che preferiscono invece la tranquillità di rendite di posizione ad una ben più faticosa lotta giornaliera.

Ed è da notare che spesso gli stessi strenui difensori del liberismo economico si adeguano poi ben volentieri a modalità di mercato in cui le proprie attività vengono in qualche modo favorite da politiche protezionistiche.

I sostenitori della teoria economica liberista, in qualità di difensori della libera iniziativa e del minor peso dello Stato (parleremo più avanti di quale può essere il compito di un’amministrazione pubblica) si sono trovati in modo abbastanza naturale su posizioni considerate di destra, perlomeno in contrapposizione alle tipiche concezioni di sinistra per cui è lo Stato a decidere ed imporre modalità e regole, teoricamente più attente ai bisogni e alle necessità dei più deboli.

Personalmente sono decisamente contrario ad una simile interpretazione, ritenendo l’impostazione liberale non quella ben disegnata da Che Guevara (Libera volpe in libero pollaio) ma quella ben più precisa di una assunzione di responsabilità nella libertà, in cui lo Stato focalizza tutte le sue attenzioni proprio ad impedire che si creino posizioni di predominio in grado di creare squilibri e di escludere qualcuno, risultando alla fine ben più rispettosa ed attenta alle fasce deboli della società (potendo concentrare le risorse solo su di esse) di quanto lo sia quella statalista.

Sul piano dei diritti personali, si ribalta completamente lo scenario. Quasi sempre chi si ritiene un grande ed inflessibile difensore della libertà economica si ritrova con la stessa inflessibilità a voler dettare regole che in qualche modo non lasciano all’individuo il peso e la scelta della propria responsabilità, ma che ne vorrebbero dirigere ogni passo.

Che si tratti di matrimoni o adozioni gay, di eutanasia o della gestione dell’eredità, il liberista economico si scopre spesso un conservatore di ferro, pronto a creare regole rigidissime per impedire che gli individui siano in grado di sbagliare per conto proprio.

E’ così che il liberale (nella sua accezione di difensore dei diritti civili) si trova dall’altra parte della barricata, incasellato immediatamente come uomo di sinistra, in contrapposizione forte con le posizioni in qualche modo di derivazione e di convinzione religiosa (pur essendo, spesso, la Chiesa attuale molto più avanti e molto più liberale).

Non è certo mia intenzione discutere l’atteggiamento di chi ha profondi convincimenti personali, ma ritengo che l’idea di uno Stato laico, in grado di andare oltre le personali posizioni di ognuno e in grado di fornire risposte di libertà individuali, sia l’unica possibilità per un futuro che deve rispondere a sfide importanti su questi temi.

Credo sia sufficiente ricordare la necessità di trovare una corretta risposta alle impostazioni islamiche, certamente regressive in termini di libertà personale, sicuramente in aumento nei prossimi decenni dato il massiccio esodo in atto e che dovranno trovare una giusta sintesi nella nostra società senza farci arretrare dalle conquiste fino ad oggi faticosamente ottenute.

E anche qui è bene ricordare come si verifichino episodi di completa incoerenza. Un esempio su tutti, i medici obiettori di coscienza in pubblico (inteso come struttura pubblica in cui operano) in grado di operare aborti senza problemi in privato (inteso come clinica privata con lauti pagamenti possibilmente sottobanco).

Voglio velocemente aggiungere un’ultima considerazione sulla storia dei liberali nella politica italiana dal dopoguerra ad oggi: pur potendo contare spesso su ottimi personaggi, e in alcuni casi su personaggi eccezionali, sono stati stampella e certificazione di serietà per partiti che hanno sempre utilizzato lo Stato come strumento principe delle politiche economiche quando non delle politiche corporative, dalla Democrazia Cristiana di De Gasperi al PD di Renzi.

Siamo però nel terzo millennio e le sfide da affrontare sono completamente diverse da quelle affrontate e spesso vinte dal liberalismo nel millennio precedente.

La globalizzazione, punto di unione di due volontà opposte, la destra alla ricerca di nuove e migliori occasioni affaristiche e la sinistra alla ricerca di una suddivisione dei beni più equa a livello mondiale, sta raggiungendo i suoi effetti senza che nessuno sappia scnadire con coerenza la realtà banale sotto gli occhi di tutti: la crescita delle economie un tempo terzomondiste avviene, in modo abbastanza ovvio, a scapito dell’opulento occidente.

L’occidente deve prenderne atto, comprendere che ciò che era possibile prima non lo è più e rivedere tutte le sue politiche, a partire dai welfare onnicomprensivi fino ai diritti del lavoro. Non per diminuire le conquiste di civiltà ottenute in anni di lotte, ma per riportare tutto in equilibrio, escludendo solo le parti, e sono molte, di coloro che beneficiano non avendo necessità né diritto e ritornando ad una sia pur faticosa ma obbligatoria necessità di impegno nel lavoro, nello studio e nella vita in generale.

I flussi migratori che stanno muovendo una gran massa di persone solo in parte giustificate da teatri di guerra e di violenza, sono una realtà anch’essa non più negabile. E anche qui l’intera civiltà occidentale non ha saputo ancora trovare le giuste impostazioni per affrontarli. Non è con la chiusura delle frontiere (pura teoria in uno scenario simile) né con l’apertura indiscriminata che si riesce a fermare una volontà di crescita e miglioramento che è insita nell’uomo. Solo la capacità di rendere attrattivo il rimanere nei propri luoghi di origine (cosa peraltro umanamente non difficile) potrà convincere i disperati a fermarsi. Le altre opzioni sono solo un tentativo di fermare l’acqua con le mani.

La società nel suo insieme, e qui volgo uno sguardo più attento a quella italiana, non è in grado di reggere le nuove modalità che si vanno delineando e consolidando da tempo. L’insieme di privilegi, disuguaglianza, politiche distorsive, illegalità e leggi ad usum delphini sono andate ormai molto oltre la possibilità di una semplice revisione in termini più o meno blandi.

Nello stesso tempo, non è prevedibile né accettabile a livello sociale un intervento che vada ad incidere realmente su alcuni dei nodi che bloccano questa società. Un intervento reale sulle pensioni privilegiate, ad esempio, non solo dovrebbe toccare gli stessi legislatori e le caste a loro vicine (come i magistrati), facendoli trovare quindi nella condizione del cappone che si dovrebbe tagliare da solo la testa, ma rischierebbe di andare ad incidere pesantemente su una società che è completamente sbilanciata verso gli anziani e che è necessario portare verso i giovani con mosse che siano in grado di farlo senza far crollare il sistema (o che facciano temere di farlo, il che politicamente e socialmente può essere quasi la stessa cosa).

Il mondo del lavoro, che i liberali da salotto messi al potere insieme ai quattro scalzacani statalisti hanno deciso di cambiare radicalmente, ignorando un tessuto fatto ancora oggi di piccole aziende, trattandole come fossero tutte pronte a riunirsi, per volontà o per necessità, in agglomerati più grandi in grado di “reggere le sfide della globalizzazione”, è agonizzante ed è necessario uno sforzo notevole di fantasia e capacità per mettere insieme le necessità di un mondo senza confini con il piccolo artigiano italiano. E non è auspicando l’adeguamento di un popolo intero a modalità diverse dalle sue che si può vantare una buona politica, per quanto moderna e rivolta al nuovo.

L’incapacità delle forze liberali nel dare risposte accettabili alla situazione italiana e non solo, ha fatto sì che fino ad oggi vincesse sempre chi proponeva soluzioni semplici, immediate e con diretto intervento dello Stato, con il conseguente aggravio di costi e involuzione costante.

In questo senso, e per mancanza assoluta di alternative serie occorre leggere gran parte delle proposte in voga di ieri e di oggi: il reddito di cittadinanza, gli 80 euro, ma anche il berlusconiano aumento delle pensioni minime e persino il milione di posti di lavoro, non certo pensati come risultato di nuove imprese e nuove attività.

Eppure non c’è solo la furbizia italica, il tentativo di appoggiarsi al signorotto feudale in auge al momento.

Esiste un’altra Italia, che ha voglia e richiede serietà e meritocrazia, lavoro e impegno.

E che non può più accettare il compromesso, che sceglie l’alternativa anche quando fa paura, perché se il chirurgo barone che mi opera da anni mi ruba nel frattempo il portafoglio (o lo lascia rubare al collega della corsia accanto) e utilizza strumenti infettati perché non gestiti con serietà, preferisco il dottorino neolaureato. Rischierò di più, ma tra le mille possibilità c’è anche quella che risulti più bravo e con mano più ferma dell’altro, ormai anziano.

A tutto questo il mondo liberale, quello che si è schierato con Berlusconi, perché lui sì che sa di cosa parla, che si è schierato con Renzi, perché lui sì ha voglia di cambiare, che si è schierato con chiunque, perché è così che si riescono a porre i temi liberali e si riesce a cambiare il sistema dall’interno, non sa che dire, e forse non ne ha neanche voglia.

E’ per questo che io oggi sento più che mai l’esigenza di una proposta liberale seria e concreta e oggi più che mai non voglio essere confuso con questi liberali italiani.

Per questo, vi prego, non chiamatemi liberale.

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