Firme Elettorali – Intervista a Gabriele Maestri – Parte 1

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Nella scia di quella che vorremmo trasformare in una “campagna” per la revisione e l’adeguamento dell’istituto della raccolta delle firme elettorali, continuando pertanto la nostra volontà di dare battaglia su temi di attualità e sensibilità di sovente non annoverati tra quelli “di interesse”, pubblichiamo un’articolata intervista che siamo riusciti a realizzare grazie alla disponibilità offerta da Gabriele Maestri, giornalista pubblicista, dottore di ricerca in Teoria dello Stato, noto per il suo impegno divulgativo e accademico in materia di diritto dei partititi e dei loro simboli, impegnato da tempo nello studio delle forme politiche del nostro paese e delle loro revisioni.

 

Vista la lunghezza e la complessità, la dividiamo in due parti, proponendovi oggi la prima, qui sotto.

 

 

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Maestri, il prof. Carlo Fusaro già nel 2008 affermava che “La faccenda delle sottoscrizioni per la presentazione delle liste di candidati alle elezioni politiche è ormai uno scandalo nazionale”? Anche lei la vede così?

Condivido la frase del prof. Fusaro, ma i motivi per pensarla così sono molti, magari non tutti coincidono con i suoi. La critica di Fusaro si dirige soprattutto contro il regime delle esenzioni – viene da dire delle “autoesenzioni” – dalla raccolta firme che i partiti presenti in Parlamento (e non solo) hanno costruito a beneficio di molti di loro. Questa è la parte principale dello “scandalo nazionale”, ma ora in dubbio c’è la stessa efficacia della raccolta di sottoscrizioni nel procedimento pre-elettorale. E’ bene dunque interrogarsi sugli scopi originali di quel meccanismo e su quanto questi siano stati raggiunti o “traditi”.

 

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Da dove nasce, quindi, l’esigenza di raccogliere le firme per le varie candidature?

All’inizio non si parlava tanto di sottoscrittori, ma di “presentatori” (il nome, a volte, è rimasto), perché i sostenitori della candidatura o della lista erano, per le norme allora in vigore, l’unico soggetto legittimato a presentare le candidature: se ci si pensa bene, alle elezioni comunali è ancora così. Col tempo sono emersi i partiti (e gli altri gruppi politici) e loro hanno conquistato il ruolo dei presentatori: a quel punto la raccolta firme non era più necessaria, ma si è scelto di mantenerla attribuendole un altro ruolo, quello di dimostrare che il partito/gruppo che presenta i candidati ha un seguito minimo in un determinato territorio, così da garantire un livello sufficiente di serietà delle candidature.

 

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Si può dire che l’obiettivo sia stato centrato?

Solo in parte. Già mezzo secolo fa, per un autore attento come Giuseppe Ferrari era anacronistico pretendere ancora la raccolta firme dopo che la presentazione delle candidature era diventata una prerogativa dei soli partiti e ciò bastava a garantire la serietà della proposta elettorale (una frase davvero difficile da sostenere oggi). Lo stesso costituzionalista, però, aveva dovuto ammettere che il numero delle sottoscrizioni richieste era “troppo basso nelle elezioni politiche, e talvolta troppo alto in un comune di poche centinaia di abitanti”: per lui alle elezioni politiche non si chiedevano abbastanza firme e i concorrenti – compresi quelli da prefisso telefonico nell’urna – erano troppi, benché all’epoca fosse più basso il numero di elettori e più gravosa l’autenticazione delle sottoscrizioni. Invece che dare ascolto a Ferrari e alzare l’asticella, dalla metà degli anni ’70 il Parlamento l’ha abbassata sempre di più, favorendo peraltro chi nelle Camere c’era già più degli altri.

 

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Il malcostume “partitocratico” è solo quello che ha abolito anche il solo fastidio di raccogliere le firme per le proprie liste elettorali ai partiti o gruppi politici con una presenza qualificata in Parlamento? Non è altrettanto assurdo costringere alla raccolta di sottoscrizioni coloro che, in un dato momento, non si sentono in alcun modo rappresentati da chi già siede alle Camere?

L’osservazione è acuta e coglie in parte nel segno. Uno strumento nato e cresciuto per garantire la serietà delle candidature rischia di trasformarsi in una barriera difficile da superare per chi sta fuori dal Parlamento, mentre quando invece per i partiti già entrati somiglia piuttosto a una rete: queste forze politiche sono quasi “trattenute” all’interno, hanno solo l’onere di dimostrare un minimo di grandezza, quanto basta a non essere espulsi da una delle maglie della rete stessa. Non è assurdo in sé chiedere le firme a chi non si sente rappresentato da alcun parlamentare e vorrebbe entrare alle Camere; diventa però assurdo e ingiusto nel momento in cui si esenta dalla raccolta un soggetto che magari ha rappresentanti in Parlamento,ma ha un radicamento territoriale e sociale che sfiora lo zero

 

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Sul piano giuridico si è generalizzato il principio per cui, in ogni tipo di elezione, le candidature devono essere munite di una “dimostrazione in vita” dei suoi membri, per cui le sottoscrizioni di un certo numero di elettori dovrebbero provare la seria consistenza e un minimo di consenso delle candidature. Ma è ragionevole che l’unico ostacolo alla polverizzazione delle liste possa essere rappresentato dalla raccolta firme… per chi non si sente rappresentato nel “palazzo”?

Ovviamente non è ragionevole, o per lo meno non lo è più, per tanti motivi. Il principale è dovuto all’allargamento sempre maggiore del numero di soggetti che godono dell'(auto)esenzione dalla presentazione delle firme, a fronte di una diffidenza crescente da parte degli elettori che rende via via più difficile l’opera di raccolta delle sottoscrizioni (a dispetto del maggior numero di autenticatori e potenziali firmatari). Non è nemmeno ragionevole che ci siano elezioni “meno uguali di altre”, per cui per il voto amministrativo non ci sono esenzioni, previste invece per le elezioni politiche ed europee, mentre a livello regionale la situazione è notevolmente disomogenea, in modo anche piuttosto sgradevole, ma ci torneremo.

 

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Perché solo chi è già all’interno del palazzo è o può essere esentato dalla raccolta firme? Il fatto di essere seduto su una “poltrona” è “dimostrazione di seria consistenza”? Basta pensare a formazioni residuali da Ncd a scendere verso Sc, Ala e altri per avere seri dubbi.

Ovviamente chi è già “nel palazzo” non deve per forza essere esentato: lo hanno scelto proprio i partiti in Parlamento. Nel 1976 si decise che non avrebbero dovuto presentare firme i partiti costituiti in gruppo parlamentare (anche in una sola Camera) nella legislatura in scadenza o che alle elezioni precedenti avessero presentato candidature con proprio simbolo, ottenendo almeno un seggio in Parlamento. Si era creato un evidente cortocircuito, per cui chi era già entrato iniziava a spianarsi la strada per restare o tornare dentro, a danno di chi era fuori; venti deputati o dieci senatori (in un sistema proporzionale come quello di allora) erano però una presenza qualificata, fornendo adeguata prova di consistenza del soggetto politico, nato anche dopo le elezioni; dava già meno garanzie un gruppo che aveva corso col suo simbolo alle elezioni e aveva eletto almeno un parlamentare, ma era un parametro accettabile.

Certamente, però, negli anni successivi nuove norme hanno ampliato di molto i soggetti esentati dalla raccolta firme, con un corredo di storture miste. Due casi per tutti. Alle elezioni europee (e a certe regionali) non si raccolgono firme sui simboli compositi, che cioè al loro interno abbiano una miniatura di un emblema già esente in virtù della rappresentanza in Parlamento: in questo modo, se c’è chi è riuscito a eleggere anche solo un deputato o un senatore, quel partito può accordarsi con un’altra formazione nuova e farle presentare la lista senza sottoscrizioni (magari chiedendo in cambio candidature e, secondo i più maligni, denaro). Alla vigilia del voto del 2008, poi, un decreto legge sollevò solo in quell’occasione dall’onere delle sottoscrizioni le liste rappresentative di partiti o gruppi che, alla data di entrata in vigore del decreto stesso, avessero avuto due parlamentari a Strasburgo o in una delle due Camere (bastava una dichiarazione del legale rappresentante dei partiti in questione): la deroga però non era ancora abbastanza ampia, così il Parlamento, in sede di conversione, stabilì che i due parlamentari italiani potevano essere anche uno alla Camera e uno al Senato. E’ “seria consistenza” questa?

 

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Molti (?!?) in questi ultimi mesi, rincorrendo il tema – soffermandosi peraltro sulle sigle, ma preferendo “snobbare” certi “diabolici dettagli” – si affannano a dire la propria sulla #leggelettorale, ma pochi sono gli “addetti ai lavori” che si stanno occupando della questione “raccolta firme”? Cosa pensa di questo orientamento?

Bisogna ammettere che la scelta della formula, dunque del sistema elettorale è la questione tecnico-politica più delicata in assoluto ed è su quella che, nelle prossime settimane, si snoderà il confronto (e lo scontro) tra le forze politiche. Certo, sapere come dividere i seggi tra i partecipanti alle elezioni è questione che logicamente dovrebbe venire “dopo” aver deciso chi può effettivamente partecipare alle elezioni (e, in prospettiva, alla ripartizione dei seggi), ma la seconda non è questione che – in questa fase, lontana dal voto – appassioni troppo i retroscenisti, i loro lettori e, volendo, anche più di qualche tecnico.

 

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Il problema della “raccolta firme” – di fatto lo ha appena detto lei – incide direttamente sulla possibilità stessa di presentare liste e quindi sull’offerta elettorale; quest’ultima condiziona ovviamente prima di tutto il voto e poi i suoi risultati. Possibile che la “libera iniziativa” sia di fatto ostacolata da un filtro simile, che nulla ha a che vedere con la validità e l’autorevolezza del sistema della #rappresentanza?

Capisco il dubbio, ma qualche ragione dalla sua la raccolta firme ce l’ha. Per le elezioni nei comuni sotto i mille abitanti è difficile trovare candidati, dunque le liste si presentano senza sottoscrizioni: ciò agevola i cittadini, ma consente a chiunque di candidarsi senza problemi (basta il numero minimo di persone in lista), pur risiedendo a decine di chilometri di distanza ed essendo ignoto a tutti, o rappresentando un partito nazionale anche grande che però in quel territorio non ha radici; risultato, non è raro che un candidato sindaco non prenda neanche un voto.

Quelle liste in più non sarebbero un male se comportassero solo un ampliamento dell’offerta, ma non ha senso disporre di opzioni di cui non si sa nulla. In più questo si presta a usi distorti: si pensi alle polemiche sulle liste che schierano membri delle forze dell’ordine, magari candidati lontano dal loro luogo di servizio e posti per legge in aspettativa retribuita per i trenta giorni di campagna elettorale. Ora, si immagini di estendere questo stato a tutta l’Italia: senza l’obbligo di presentare le sottoscrizioni alle elezioni politiche, chiunque potrebbe candidarsi in un collegio qualsiasi, anche solo per “vedere di nascosto l’effetto che fa”; non è assurdo immaginare uffici ingolfati di pratiche, straordinari à gogo e schede elettorali così affollate da dover essere allargate (pure questo costa). L’ultimo punto, poi, solleva un altro problema.

 

(continua …)

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